SPIRITUALITÀ E CULTURA: FATTI, IDEE, DOCUMENTI
Scienza e Tecnologia a servizio di un nuovo Umanesimo: i corsi STEM nel futuro dei laureati in discipline umanistiche
di Pasquale Frascolla
Che
cosa sono i corsi di studio STEM e perché dovremmo occuparcene? Per rispondere
a queste due domande, cominciamo col dire che STEM è l’acronimo per “Science,
Technology, Engineering, Mathematics”. L’Amministrazione Obama e adesso quella
Trump hanno investito milioni di dollari per incrementare le iscrizioni dei
giovani ai corsi STEM e la ragione è ovvia: le opportunità di lavoro per
laureati dell’area STEM sono molto maggiori che per i laureati in altre
discipline, soprattutto per quelli provenienti dagli studi umanistici in senso
lato. A risultati analoghi porta il confronto tra i laureati STEM e gli altri,
per quanto riguarda i tassi di crescita dell’occupazione, i tempi impiegati per
trovare occupazione, il livello di reddito dopo un certo intervallo di tempo di
lavoro. Che anche in Italia si debbano avviare politiche dello stesso tipo mi
sembra un’ovvietà, e in parte sta già avvenendo. Qui non m’interessano tanto
gli aspetti politico-economici della questione, quanto quelli
politico-culturali. In particolare, mi pare che questa situazione e queste
tendenze sollecitino una riflessione soprattutto da parte di chi si occupa d’istruzione
universitaria in ambito umanistico.
Per
prima cosa, occorrerebbe iniziare a contrastare il ruolo sempre più “ornamentale”
della ricerca in area umanistica. È importante, sicuramente, che alcune persone
dedichino la loro vita professionale a studiare il problema della natura degli
oggetti nell’ontologia del Tractatus di Wittgenstein o, quello dello
schematismo nella teoria kantiana della conoscenza, o quello del ruolo della
teleologia nella concezione hegeliana dello sviluppo dello spirito (gli esempi
sono tratti dalla filosofia solo per competenza professionale, ma uno storico,
un filologo ecc. potranno sostituire i miei esempi con i loro, con la stessa
efficacia). E non c’è dubbio che, attraverso le infinite mediazioni dei processi
di diffusione della cultura, qualcosa di tutto ciò prima o poi confluirà nel
bagaglio degli uomini colti in generale. Tuttavia, il riconoscimento dell’alta
professionalità richiesta per impegnarsi in questo tipo di studi (almeno in
condizioni ideali) non può far dimenticare come la trasmissione e l’ulteriore
elaborazione di questo tipo di sapere non possa costituire, per la gran parte
dei giovani, una reale alternativa a quello che le STEM offrono in una società
dominata dalla scienza e dalla tecnologia.
Una
reazione assolutamente da respingere, di fronte alla situazione sopra
tratteggiata, e che pure è abbastanza diffusa, è la continua lamentazione sulla
perdita del ruolo egemone della cultura umanistica, o addirittura sul pericolo
di una sua lenta estinzione, che si accompagna, di solito, a quello che
chiamerei “un qualunquismo anti-matematico”, ossia a una polemica contro il
dominio degli algoritmi nella nostra vita, che impoverirebbero le menti
privandole dell’“ampio respiro” del discorso umanistico (una lamentazione
basata, di solito, su un accentuato analfabetismo matematico che, attenzione,
non riguarda mica i sofisticati formalismi della teoria della relatività o
della meccanica quantistica, ma perfino i fondamenti dell’analisi su cui Newton
tre secoli fa ha costruito la sua dinamica e la sua meccanica celeste).
Una
strategia molto più ragionevole in difesa della formazione umanistica dovrebbe,
a mio avviso, partire dalla consapevolezza della funzione che quella formazione
potrebbe e dovrebbe svolgere anche per i giovani che si collocano nell’area
STEM. L’economista premio Nobel Ned Phelps ha sostenuto, giustamente, che “la tecnica va puntellata con le soft skills
umanistiche, figlie di storia, filosofia
e letteratura, necessarie a sviluppare lo spirito critico e d’iniziativa
necessari a gestire il cambiamento”.
Anche qui, però, è opportuno fare una precisazione. Il problema non è
garantirsi che gli scienziati-tecnologi di domani siano persone che, nei giorni
festivi, per così dire, si dedichino a buone letture, coltivino le loro
passioni musicali, filosofiche o altro. No, ciò avviene già, almeno nei casi
migliori.
L’obiettivo
deve essere molto più ambizioso: introdurre nei processi di formazione gestiti
dalle istituzioni scolastiche e universitarie quegli elementi di consapevolezza
critica generale che lo studio scientifico disciplinare non è in grado di
fornire. Per essere concreti, si pensi all’effetto che avrebbe sulla formazione
di uno scienziato-tecnologo una robusta iniezione di sapere logico-argomentativo,
di riflessione sui fondamenti delle scienze che essi coltivano e di una solida
conoscenza della storia di quelle stesse discipline, intrecciata con quella
della filosofia (un grande epistemologo, scimmiottando Kant, soleva dire che la
filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota, e che la storia
della scienza senza la filosofia della scienza è cieca).
Un
progetto di questo tipo riconsegnerebbe al sapere umanistico un ruolo
essenziale nella formazione degli uomini colti, che sono già oggi, e saranno
ancor più domani, soprattutto scienziati e tecnologi (anche se so quanto sia
impopolare, nella cultura italiana, affermare il principio che il sapere
scientifico, matematica inclusa, è cultura e basta, senza ulteriori aggettivazioni).
Tuttavia, per poter realizzare quel progetto, gli studiosi umanisti sono
chiamati, a loro volta, a un mutamento radicale dei propri impegni culturali di
base: perché oggi, almeno in Italia, l’analisi del pensiero
logico-argomentativo, la conoscenza dei fondamenti delle scienze “dure” e
quella della loro storia hanno un ruolo assolutamente marginale nella stessa
formazione umanistica. Solo se sarà capace di trasferire agli
scienziati-tecnologi i valori della riflessione critica sugli schemi
concettuali attraverso i quali ci rappresentiamo il mondo naturale e storico,
la cultura umanistica non sarà, definitivamente, condannata a quel ruolo,
certamente nobile, ma, ahimè, puramente ornamentale, di cui ho detto sopra. E
da questo cambiamento non ci guadagnerà solo il profilo intellettuale degli
scienziati-tecnologi, ma quello della società nel suo complesso.
L’Autore
Pasquale
Frascolla è professore ordinario di Logica e Filosofia del Linguaggio all’Università
della Basilicata: studioso di larga fama, da molti anni si prodiga, nella
ricerca personale, nell’insegnamento, e nei progetti internazionali, perché si
realizzi per i giovani umanisti un programma formativo libero da schemi
ottocenteschi e appropriato all’era digitale.
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