In ricordo di un celebre psichiatra-psicoanalista
C.G. Jung e per il 50° anniversario della sua morte, venerdì 13 c.m. si è
tenuta, presso i saloni dei cavalieri di Camelot del centro diurno cittadella
sanitaria “L. Mandalari”, una tavola rotonda dal titolo “Il pensiero junghiano
in un mondo complesso” per onorare il suo grande pensiero e la sua profonda
saggezza.
Diversi i professionisti che si sono
succeduti nell’attenta riflessione circa la nota psicologia analitica di Jung.
Gli ospiti sono stati allietati, prima
dell’incontro, dalla visione dell’intervista faccia a faccia con il giornalista
John Freeman che C.G. Jung rilasciò nel 1959, dove rispose ad una serie di
domande a proposito delle sue esperienze di medico negli ospedali psichiatrici,
raccontando alcuni aneddoti interessanti, ma anche della rottura con il suo
maestro Sigmund Freud, padre dalla psicoanalisi, dal momento che egli stesso
sosteneva che “Freud avrebbe avuto una certa noncuranza per le condizioni
storiche dell’uomo”.
Morì, poco dopo, nel 1961.
Ad aprire i lavori della tavola rotonda
il dott. Matteo Allone, analista junghiano e responsabile del centro diurno “Camelot”;
prof. Gembillo, ordinario di filosofia della complessità “Edgar Morin” dell’università
di Messina; dott. Ancona, analista junghiano; prof. La Barbera, ordinario di psichiatria,
presso il dipartimento di biomedicina dell’università di Palermo; dott. Mondo,
analista junghiano; dott. Baldari, responsabile U.O.S. – psicoterapia, studi e
ricerche, micropsicoanalista, direttore I.I.M.
Un medico che, già allora, nel suo
approccio col paziente, vide l’essenzialità di considerare quest’ultimo come
una “persona” della quale sviluppare le sue potenzialità: il suo metodo era
orientato all’umano. L’aspetto della cura psichica è un’assunzione di un
atteggiamento speciale (simbolico) allo stato psichico del paziente. Occorre porre attenzione al sintomo – così
egli sottolineava.
Jung, nonostante non facesse parte di
quest’epoca, aveva già percepito la perdita dei simboli e del senso della vita,
il disagio della post-modernità, un’epoca in cui vige un mondo caratterizzato
da frammentazione, scissione, eccessivo narcisismo, desimbolizzazione, in cui
si è perso il senso autentico della vita, dove prevale il “non-senso”. In poche
parole un “mondo complesso” governato dal non-senso della vita, all’interno
della quale vi è un appiattimento di valori e ideali, di sentimenti e di
emozioni.
L’essere umano è divenuto colui che
subisce, piuttosto che essere un individuo attivo protagonista della propria
vita. La psicologia analitica di Jung si propone come metodo che può recare
sollievo al caos prodotto dalla post-modernità.
Pertanto, già allora, si avvicina alla cultura
post-moderna, partendo dall’individualismo all’individuazione come stato
psichico caratterizzato da fluidità che permette all’essere umano di
riconnettersi al senso della vita e che produce un individuo psicologico, un’unità
separata, indivisibile: un ‘tutto’.
Il suo intento era quello di suggerire
un metodo per accrescere la coscienza umana e condurre l’uomo oltre l’individualismo
e, come fine ultimo, guidare la coscienza dell’‘Io’ fuori dai suoi territori
verso nuovi orizzonti.